Belluno

Belluno
Piave, Ponte della Vittoria

sabato 2 novembre 2013

Agosto 1951, manovre militari a Belluno. Arriva il generale Montgomery e sul Col di Roanza la protesta accende i fuochi di pace

La posizione dell'Italia al tavolo dei vincitori, all'uscita della II^ Guerra mondiale, non era molto semplice. Eravamo stati a fianco alla Germania di Hitler fino al 3 settembre del 1943, quando viene firmato l'armistizio a Cassibile con gli Alleati. E quindi c'era il rischio di dover cedere territori di confine come l'Alto-Adige la Valle d'Aosta. Ed era in ballo anche la sovranità di Trieste e dell'Istria.
Non avevamo certamente un'ottima reputazione. E il premier Alcide De Gasperi lo sapeva benissimo, tant'è che alla Conferenza di Pace di Parigi del 10 agosto 1946 prende la parola dicendo: “... in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato...”
De Gasperi salva L'Alto-Adige, la Valle d'Aosta e Trieste. L'Istria no. D'altra parte la Jugoslavia si era liberata da sola da Hitler. A differenza dell’Italia dove era intervenuto l'esercito Anglo-americano e dunque la nostra democrazia nasce debitrice nei confronti degli Alleati.
Così, nel 1951 viene autorizzata a Camp Darby una base militare dell'esercito statunitense nel territorio comunale di Pisa, mille ettari di pineta demaniale alle spalle della frazione di Tirrenia, accanto al “centro sbarchi” di Livorno.
La notizia è battuta dalle agenzie la sera di sabato 18 agosto 1951 e si sovrappone a quella della visita nel Nord-Est del generale britannico Montgomery.  Sir Bernard Law Montgomery, quello del cappotto di panno introdotto dalla Royal Navy in dotazione ai marinai, vincitore su Rommel ad El Alamein, capo dello stato maggiore imperiale dal 1946, e vicecomandante supremo di tutte le forze della Nato dal 1951 al 1958.   
La protesta per la presenza dell’alto ufficiale parte da Udine e Gorizia, dove gli operai delle fabbriche votano ordini del giorno contro la visita del generale, che in veste di vicecomandante della Nato ha il compito di valutare e predisporre il fronte orientale.
Siamo in piena Guerra fredda, Veneto e Friuli Venezia Giulia rappresentano la frontiera del Patto Atlantico (firmato a Washington il 4 aprile 1949) per fronteggiare un eventuale attacco dell'Unione Sovietica e dei Paesi comunisti del Patto di Varsavia.
Sabato 18 agosto Montgomery è sulle foci del Tagliamento ad assistere alle manovre militari. Nel pomeriggio visita Venezia.
La missione di Montgomery prosegue in provincia di Belluno, dove assiste alle manovre militari in che si tengono in Nevegal.  Il Colle bellunese, da lunedì 20 agosto 1951- riferiscono le cronache dell'epoca -  è presidiato da militari che controllano tutte le persone che transitano, compresi i contadini.  Sulle strade e i muri di Belluno si leggono scritte inneggianti alla pace e all'indipendenza nazionale.
Giovedì 23 agosto 1951 a mezzogiorno, Montgomery è a Belluno.
L'accoglienza non è delle migliori. Sul Col di Roanza, dopo il tramonto, vengono accesi dei fuochi in modo da comporre la scritta “Pace” visibile dalla città.  Intervengono i Vigili del fuoco per lo spegnimento, ma l'obiettivo è comunque raggiunto. Viene avviata subito un'indagine dalla polizia e dai carabinieri per identificare i responsabili, ma le manifestazioni di protesta proseguono in città.
Le proteste dei singoli proprietari dei terreni in Nevegal dove avviene l'esercitazione dei militari non hanno alcun effetto. E allora scendono in campo anche l'Associazione coltivatori diretti aderente alla Confederterra, la Cisl e l'Associazione agricoltori, per difendere contadini e  proprietari. Si parla di danni rilevanti ai terreni. Un proprietario, Luigi Forlin, lamenta che nel suo appezzamento sono esplose oltre 200 bombe, rendendolo così improduttivo.  Ai danni patiti si aggiunge anche l'intransigenza delle autorità militari, con la conseguente richiesta che le future manovre vengano programmate altrove, per consentire il ripristino dei pascoli e della fienagione.
La missione di Montgomery si estende anche alle zone di confine dell'Alto Adige. Anche qui però, l'accoglienza non è delle migliori. A Bolzano e Merano i lavoratori si organizzano in delegazioni e chiedono di essere ricevuti dal generale. Nelle fabbriche si redigono ordini del giorno contro “i piani di guerra” di Montgomery.
Nel Trentino la situazione è pressoché analoga. Manifestazioni pacifiste di protesta. Il Movimento dei Partigiani della pace raccoglie migliaia di firme.  Fondato nell’aprile del 1949 a Parigi con obiettivi antimperialisti e di cultura antifascista, il Movimento si batte per  l’interdizione dell’arma atomica e all’incontro delle cinque grandi potenze per un patto di pace con la consapevolezza di poter evitare una nuova disastrosa guerra.
Dopo due settimane di ispezioni alle frontiere del Nord-Est, lunedì 27 agosto Montgomery se ne va su un bimotore della R.A.F. che atterra all'aeroporto di Ciampino proveniente da Udine.
Il generale rimarrà a Roma per alcuni giorni, alloggiato all'Hotel Hassier.
Roberto De Nart

martedì 7 dicembre 2010

Aprile 1945: il comandante “Carlo” beffa per la seconda volta le guardie alle carceri di Baldenich

carcere di Baldenich (Belluno)
Il 28 aprile del 1945 “Carlo” il comandante della Piazza di Belluno, ovvero Mariano Mandolesi, ripete il bliz che già gli era riuscito nel giugno del ’44, conclusosi con la liberazione di 70 prigionieri politici dalle carceri di Baldenich, senza sparare alcun colpo. Questa volta il piano scatta dall’interno delle carceri grazie alla complicità delle guardie. Tra i tedeschi di guardia e i carabinieri appoggiati dai partigiani, scoppia anche un breve conflitto a fuoco. Che si conclude positivamente, senza perdite per i “nostri”. La sequenza dei fatti è descritta nella relazione di servizio del maresciallo Antonio Raga, allora comandante della guarnigione di 15 militari dell’Arma, in servizio alle carceri bellunesi. 


Mariano Mandolesi (comandante Carlo)

<<Sin dal mese di marzo 1945 il comandante Carlo (Mariano Mandolesi n.d.r.), mentre si stavano preparando i piani per l’occupazione della città, si preoccupava della liberazione dei detenuti politici dal carcere di Baldenich>>. E’ quanto scrive il maresciallo dei carabinieri Antonio Raga nella sua relazione di servizio relativa ai fatti avvenuti il 28 aprile del 1945. E quando Mandolesi apprende che i 15 carabinieri in servizio alle carceri appartengono tutti allo stesso battaglione del maresciallo Raga, dà l’incarico a quest’ultimo affinché il blitz di liberazione dei prigionieri politici avvenga avendo cura di trattenere le spie. Il maresciallo, ordina ai propri carabinieri di tenersi pronti e di non agire assolutamente prima d’aver ricevuto l’ordine. Anche perché, solo due giorni prima, il 26 aprile, il tenente tedesco Karl gli aveva fatto intendere chiaramente di essere a conoscenza che tutti i carabinieri collaboravano con i partigiani, promettendo che <<avrebbe aggiustato i conti con loro>>. I carabinieri in servizio alle carceri, infatti, erano tutti regolarmente inquadrati in un reparto partigiano, ed erano pronti all’azione. C’era un piano segreto che nemmeno i partigiani di Borgo Pra conoscevano. Alle tre del pomeriggio del 28 aprile 1945, infatti, il maresciallo Raga si reca a Borgo Prà e si accorge che diversi partigiani muniti di corde e scale si stanno avviando verso il carcere per tentare di penetrarvi. Capisce subito che si sarebbe verificata una carneficina, perché i tedeschi in servizio nelle carceri erano superiori numericamente ed anche come equipaggiamento ed armamento individuale a quello delle sue venti guardie. E quindi sarebbe stato difficile neutralizzarli ed impedire loro di dare l’allarme e chiamare i rinforzi. Senza tener conto che la reazione tedesca sarebbe stata certamente spietata. Il tenente Karl, infatti, aveva dato l’ordine di uccidere con le bombe nelle loro celle tutti i detenuti politici in caso d’emergenza. Analoga sorte sarebbe toccata alle quattro o cinque guardie carcerarie che erano disarmate. Ed anche per i carabinieri in servizio non si prospettava una facile situazione, dal momento che erano a corto di munizioni. Raga riesce a convincere il comandante dei partigiani di Borgo Pra che bisognava attendere l’ordine del comandante “Carlo”. Un’ora dopo, infatti, tre partigiani si presentano alle carceri, e comunicano all’appuntato Savoia che l’ordine era arrivato. L’operazione ha inizio. L’appuntato chiama il comandante della guardia tedesco dicendogli che è desiderato al telefono e con l’aiuto di Grasselli (uno dei tre partigiani penetrati) lo disarma. Altrettanto fanno gli altri carabinieri insieme alle guardie. Così, sfruttando l’effetto sorpresa, diciannove gendarmi vengono immediatamente disarmati. Vengono spalancate le sbarre e i detenuti politici escono incontro ai partigiani che provvedono ad armarli. Intanto, lungo i camminamenti di cinta, le sentinelle proseguono i loro turni normali per non destare sospetti dall’esterno. Sulla strada di Baldenich, infatti, transitavano le truppe tedesche in uscita dalla città. Vengono predisposte le corde d’emergenza per un’eventuale via di fuga. Verso le sette di sera le vedette segnalano l’arrivo di 12 soldati tedeschi inviati dal comando della gendarmeria, insospettiti del fatto che non erano riusciti a parlare al telefono con il comandante della guardia. E’ sempre l’appuntato Savoia che apre il portone ai soldati. Arrivati al primo cortile interno i 12 tedeschi ricevono l’intimazione dai partigiani a gettare le armi. Ma reagiscono aprendo il fuoco in direzione delle finestre. I partigiani ed i carabinieri sparano a loro volta ed uccidono i due sottufficiali tedeschi. A quel punto gli altri dieci uomini si arrendono. L’azione riesce perfettamente senza alcuna perdita (solo un prigioniero politico subisce una lieve ferita al braccio). Poi, nella notte, avviene anche l’evacuazione completa dei detenuti comuni.

“La beffa di Baldenich I”: Il 16 giugno 1944 dodici partigiani neutralizzano le guardie e liberano 70 prigionieri



Mariano Mandolesi "Carlo"
 L’Operazione Baldenich, nota anche come Beffa di Baldenich, è il blitz portato a termine con successo da 12 partigiani nel giugno del ’44. Travestiti da soldati tedeschi entrano nel carcere e liberano 70 prigionieri politici senza sparare un colpo. I dettagli dell’operazione sono stati raccontati da uno dei protagonisti, “Carlo” il Comandante della Piazza di Belluno durante la guerra di liberazione. Ovvero il partigiano Mariano Mandolesi nato a Gaeta il 9 settembre del 1920 ed insignito della cittadinanza onoraria dal Comune di Belluno con cerimonia del 12 aprile 1976.
Il 28 Aprile 1945 Mandolesi ripeterà con successo il blitz, beffando per la seconda volta i tedeschi.


Carcere di Baldenich (Belluno)

La mattina del 16 giugno 1944 alle ore 7 e mezza del mattino, otto soldati in uniforme tedesca si presentano all’ingresso delle carceri di Baldenich con quattro prigionieri al seguito. In realtà i dodici uomini sono tutti partigiani italiani e sovietici della Brigata Pisacane, Divisione Nino Nannetti, travestiti per penetrare nelle carceri e liberare i prigionieri politici. A mettere a punto il piano la sera prima è il comandante “Carlo”, Mariano Mandolesi, insieme a De Luca. “A Baldenich ci sono 16 carabinieri - spiega De Luca a Mandolesi - 14 della gendarmeria e 2 di guardia sopra i camminamenti. Nei bracci ci sono 10 secondini, spesso aiutati da “comuni”. Prima di giungere al piazzale del carcere troveremo Lino che ci informerà sui movimenti di stamane. E all’uscita, liberati tutti i prigionieri politici, troveremo Nasi ad aspettarci con i camions”. De Luca chiama poi gli otto partigiani russi, Miscia, Kuznetsov, Tim, Mik, Vasilij, Aljoska, Timofej e Orlov dicendo loro di indossare le uniformi tedesche, per l’ultimo controllo. Miscia, che aveva i gradi da maresciallo, oltre al tascapane portava la pistola d’ordinanza Walther P38 calibro 9 parabellum e la maschinenpistole, un robusto mitra in calibro 9 parabellum che sparava solo a raffica. Sembrava tutto in regola, berretti, nastrini, mostrine, scarpe. Solo Orlov aveva con sé un fucile mitragliatore russo DP 1928 calibro 7.62 caratterizzato dal caricatore a padella contenente 47 colpi . “Moj Degtjarëv” disse (dal nome del tecnico che aveva realizzato l’arma che è rimasta in dotazione negli eserciti dei paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica  fino ai giorni nostri) . “Non puoi portarlo, sarebbe un pericolo per tutti” gli disse De Luca. “Lui pericoloso per tedeschi non per noi” ribatté Orlov. Intervenne allora Mandolesi assicurando che la faccenda sarebbe stata sistemata prima della partenza. Alle sei e mezza del mattino dopo De Luca salì su una balla di paglia prendendo la parola. “Compagni, è venuto il momento di spiegarvi in che cosa consiste l’operazione. Dopo che vi avrò parlato, nessuno potrà uscire dalla caserma, né potrà allontanarsi durante il trasferimento a Belluno. Una precauzione a cui da molto tempo non si può più rinunciare. Il vostro compito è quello di liberare i prigionieri politici che si trovano nel carcere. Non solo Milo, ma tutti! Abbiamo esaminato attentamente tutte le possibilità ed i mezzi necessari al successo dell’azione. E sono state scartate tutte le ipotesi che prevedono l’uso della forza.  Baldenich, infatti, è un carcere che può essere difeso anche da pochi uomini; senza contare che ai primi spari comincerebbero ad arrivare i rinforzi nemici dalle caserme della città. I nostri 12 uomini dovranno agire con astuzia, senza colpo ferire. Si tratta indubbiamente di un’operazione estremamente pericolosa ma è l’unico sistema che possiamo seguire. Conosciamo le dislocazioni dei vari locali del carcere, sappiamo il numero delle unità di guardia. Le recinzioni sono difese da circuiti elettrici ma non siamo riusciti a sapere come disattivarli. Diciotto compagni resteranno fuori delle mura, per coprire le spalle alla pattuglia che penetrerà nel carcere. Nella zona non si dovrà avere il minimo sospetto della presenza di partigiani. Se tutto andrà bene potrete allontanarvi sui camions che Nasi farà dislocare nei punti stabiliti. Vi prego soltanto di ricordare che questa azione non ci deve costare un solo uomo, né una sola cartuccia. Ma deve riportare alla libertà e alla vita 70 compagni”. Erano le 7 di mattina. Mandolesi prima di avviarsi si raccomanda di controllare le armi, che nessuno abbia il colpo in canna. “Perché prima di sparare dovete essere assolutamente certi che quella è l’ultima possibilità di salvezza”. Un attimo prima di lasciare la caserma Orlov trattiene per la manica Mandolesi per dirgli “Comandier io portare Degtjarëv, arma di voi prigionieri”. “D’accordo – rispose Mandolesi – diremo che quell’arma era nostra”. Nel tragitto dalla caserma a Baldenich fila tutto liscio. C’era il rischio che i partigiani travestiti da tedeschi con i prigionieri al seguito incrociassero una pattuglia di autetici tedeschi e venissero smascherati. Anche perché sulla testa di Mandolesi c’era una taglia di alcuni milioni. Il primo punto del programma però va a vuoto. Infatti Lino Piazza, che doveva trovarsi insieme alla fidanzata per riferire eventuali novità delle ultime ore nel carcere, turni di guardia ecc. non c’è. Si decide comunque di proseguire. Miscia, in divisa da maresciallo bussa con decisione. Il carabiniere dallo spioncino, visto il maresciallo cede il posto ad un sottufficiale che apre il portone e li fa entrare. Nel cortile rimangono tre partigiani con 16 carabinieri. Miscia entra nell’ufficio matricole seguito da Mandolesi, Marat, Mink, Aljoska e Orlov. Appena dentro della porta si ferma Nicolotto, vicino al telefono. Hermes e Kuznetsov chiudevano il gruppo. L’impiegato chiede a Miscia i documenti di carcerazione. “Io niet capire” risponde Miscia in un tedesco che tradisce la sua nazionalità d’origine. “Camerata, io per imprigionare questi uomini ho bisogno di carte, documenti. Dove li hai?” E Miscia “Niet capire”. Interviene allora il maresciallo delle guardie “Papir, papir” E Miscia “Soldati grande reich afere fucili prigionieri” indicando l’arma di Orlov. Ma non c’è verso, Miscia finge di non capire ed insiste in quel “niet” tutto russo che per fortuna sfugge ai carcerieri. Doveva guadagnare tempo in attesa che che arrivasse un secondino con le chiavi. La situazione si fa tesa, con Miscia che alterna momenti di calma a scatti d’ira, interpretati come manifestazioni d’autorità. Ma non c’è soluzione, la burocrazia pretende le carte con i nomi per rinchiudere quei prigionieri. Carte che evidentemente i partigiani non potevano avere. Esasperata, una delle guardie chiede: “Possibile che tra voi nessuno parli italiano?” Ma in quel momento entra un secondino col mazzo di chiavi in mano. Kuznetsov lo scaraventa al centro dell’ufficio, Mandolesi intanto punta la pistola verso l’impiegato e il maresciallo dicendo “Tutti parliamo l’italiano”! Nicolotto intanto aveva afferrato il telefono pronto a strappare i cavi. “Non fate scherzi o vi brucio le cervella – dice Mandolesi ai due carcerieri, e chiede loro -  c’è qualche allarme collegato al telefono”? “No, non c’è” gli rispondono. Nicolotto strappa la linea telefonica e scosta le tendine, come segnale convenuto per avvisare i compagni che aspettavano di sotto. Tim fa un cenno a Vasilij e quelli rimasti in cortile puntano i fucili contro una sentinella del camminamento. Timofej spalanca il portone e fa entrare altri 5 partigiani. Tim ordina alle sentinelle di scendere in cortile con le braccia alzate e tenendo il mitra sopra la testa. Mandolesi, Nicolotto e Kuznestov vanno a liberare Milo. Mentre Vasilij e Timofej avevano già disarmato tutti e controllavano che i carabinieri finissero di spogliarsi. Ma questi non si erano resi conto di ciò che stava succedendo e continuavano a dichiarare la loro fedeltà ad Hitler e Mussolini, protestando per l’incomprensibile atteggiamento dei tre camerati tedeschi. Ermes per farli tacere li rinchiuse nella cella di Milo minacciandoli con la pistola col silenziatore. I partigiani, divisi in quattro gruppi, aprivano tutte le celle. “Venivano fuori in mutandine, chi con i calzoni del pigiama, chi con la giubba militare” racconta Mandolesi, che viene abbracciato da Bianchi. Nella quarta cella Banchieri era già vestito, pettinato e con un paio di scarpe bianche estive ai piedi. Banchieri era un uomo che aveva trascorso i 2 terzi della sua vita all’estero, fuggiasco, esule o incarcerato. Era nato in una ricca famiglia di Feltre. Laureatosi in legge si era dedicato ad una intensa attività politica contro il fascismo, dovendo per questo emigrare in Francia. Richiamato in Italia dal partito comunista, fu tra i primi a conoscere il carcere fascista.
Nelle celle lasciate libere dai prigionieri vennero rinchiusi i carabinieri ed i secondini. Il portone principale era chiuso. Milo doveva avere le chiavi, ma nella confusione generale non  si riusciva a trovare. Mandolesi libera i ferri che fermano il portone e con una spallata riesce ad aprirlo. Missione compiuta.

Isabel de Obligado, la misteriosa contessa al servizio di Sua Maestà Britannica

Svizzera di nascita, ma di nazionalità argentina, parlava correttamente francese, inglese, spagnolo, tedesco oltre all’italiano. La contessa Isabel de Obligado nata Kuhn Von Kunhnenfeld era un agente segreto al servizio di Sua Maestà Britannica, decorata con Croce di guerra dal governo inglese.  Era amica del dottor Lauer, consigliere germanico presso la Prefettura di Belluno e del capitano americano Steve Hall, dell’Ufficio servizi strategici Usa in Italia. Abile nel maneggiare le armi, nell’andare a cavallo e al volante della Lancia Asturia. Soggiornò dal 1943 al 1945 a Zoldo Alto dove riuscì a garantire la tregua tra tedeschi e partigiani della Brigata Val Cordevole. Una mediazione che non piacque all’ala dura dei partigiani del Comando militare della Zona Piave, secondo i quali i tedeschi erano nemici e dunque andavano solo combattuti. Qualsiasi altro comportamento era considerato “alto tradimento”.  Come in effetti accadde. Con l’arresto e l’avvio del processo. Cui sarebbe sicuramente seguita la fucilazione della contessa, del comandante della Brigata Val Cordevole Lino Davare e del commissario Toni Berna. Se a salvare la situazione non fosse intervenuto il maggiore Benucci, della Missione americana.

Trentacinquenne, affascinante, elegante e autorevole, arriva all’albergo Civetta di Zoldo Alto nel novembre del 1942 con in tasca un regolare permesso di soggiorno rilasciato dalla Questura di Roma. Nel ‘43, tramite la contessa Carmina Bovio di Feltre, prende in affitto villa Monterumici-Mozzetti, verso il mulino tra Mareson e Coi di Zoldo Alto, dove rimane fino alla fine della guerra. Ed è proprio in questa villa in mezzo al bosco, dinanzi la contessa Isabel de Obligado, che dopo il 25 aprile del ’45, verranno decise le condizioni per la resa del distaccamento tedesco di Caprile tra il comandante partigiano della Brigata Val Cordevole e il comandante tedesco. La contessa, del resto, dal luglio al dicembre del ‘44 riveste ufficialmente il ruolo di delegato podestarile su nomina del governatore di Belluno dottor Lauer (commissario di Belluno dopo la costituzione della zona di operazione dell’Alpenvorland e la conseguente annessione al Reich delle province di Belluno, Trento e Bolzano avvenuta il 10 settembre del 1943). La villa di Mareson, dunque, nel periodo di permanenza della contessa de Obligado, divente il cuore della diplomazia tra tedeschi ed il Comando partigiano della Brigata Val Cordevole. Un ruolo che preserva la Val Zoldana da episodi cruenti di rappresaglie e distruzioni. La de Obligado intrattiene rapporti eccellenti con i partigiani della Brigata Val Cordevole, ritenuti di buona cultura e provenienti dall’area cattolica. Lo stesso non si può dire con i partigiani della Brigata Pisacane (garibaldina), dai quali subisce minacce di morte e la perquisizione della villa. A causa della sua amicizia con Lauer e della conseguente posizione di rilievo che la contessa assume nei confronti dei tedeschi, non si capisce da quale parte effettivamente fosse schierata. A chiarirlo, nel novembre del ’44, sarà il capitano americano Steve Hall (Roderik Stephen Goodspeed Hall), del Comando generale alleato in Italia (Missione Mercury Eagle), che fa la sua comparsa a Villa Mareson di Zoldo. L’ufficiale era stato paracadutato in Carnia nell’agosto ’44 con il compito di coordinare delle azioni di sabotaggio nel territorio alto atesino, dove la popolazione si dimostrava favorevole ai tedeschi. Hall, prima di essere catturato ed ucciso dai tedeschi il 26 gennaio del ‘45, confiderà ad un suo accompagnatore che la contessa de Obligado era il primo agente dell’Intelligence service. Quella sera che la contessa apprende la notizia della morte dell’ufficiale, spara in aria alcuni colpi di fucile come ultimo saluto all’amico, al quale dedica una targa affissa su un larice di fronte alla villa. Nel settembre del ’44 l’intervento della contessa si rivela determinante per evitare il bagno di sangue. I partigiani hanno sequestrato un sottufficiale della Todt. Prima dello scadere del terzo giorno fissato dai tedeschi per la liberazione dell’ostaggio, pena la rappresaglia, la de Obligado chiede al consigliere germanico presso la Prefettura, dottor Lauer, la dilazione del termine per meglio condurre la trattativa, offrendo se stessa in ostaggio come garanzia. Ma l’episodio clou avviene nel marzo del 1945 in occasione dell’incontro tra il famigerato tenente Georg Karl, comandante della polizia SS di Belluno e il comandante partigiano della Val Cordevole, Lino Davare con il commissario Toni Berna. Si trattava di un tavolo segreto di trattative volto alla creazione di una zona franca nella Val Zoldana al fine di evitare inutili sacrifici della popolazione civile. L’incontro ha luogo nella villa della contessa Isabel de Obligado senza incidenti, il tenente Karl raggiunge Zoldo Alto su una Fiat Topolino e ritorna incolume a Belluno. Una pace limitata che nessun alto comando avrebbe mai avvallato e che tuttavia venne discussa. La componente cattolica e moderata dei partigiani che si accorda autonomamente con i tedeschi. Un patto quasi impossibile da realizzare, di cui non si conoscono gli estremi e al quale segue l’immediata reazione del Comando militare partigiano della Zona Piave. Che emana l’ordine immediato di arresto del comandante delle Brigata Val Cordevole Lino Davare e del commissario Toni Berna con l’accusa di alto tradimento per aver trattato con i tedeschi. Il processo, cui sarebbe seguita senz’altro la fucilazione, si svolge in un casolare della sinistra Piave, in località Ceresera sotto Val Morel. La difesa chiama a testimoniare la contessa de Obligado, fermata in piazza Campitello (ora piazza dei Martiri) dalla staffetta Rosanna Vedana e quindi accompagnata dagli uomini della Brigata 7mo Alpini (autonoma) a Ceresera. Qui la situazione peggiora ulteriormente e la contessa da teste diviene imputata. A questo punto la difesa chiede l’intervento della Missione Americana. Sarà il maggiore Benucci che con una dichiarazione del 25 aprile del ’45 invita il Comando Zona di Belluno a sospendere il procedimento e liberare la contessa (oltre agli altri partigiani implicati). Che infatti rientra a Zoldo Alto ancora per qualche tempo. Dopodiché lascerà definitivamente Belluno trasferendosi a  Roma.

Cronaca giudiziaria della morte di Marta Kusch la “contessa” uccisa a Pedavena nel 1945. Nel 1950 la Corte d'Assise di Belluno assolve i responsabili dell'omicidio per intervenuta amnistia

Il 25 aprile del 1945 finisce la guerra in Italia. Il 7 maggio il generale Jodl, capo di stato maggiore tedesco, si presenta al quartier generale di Einsenhower a Reims per offrire la resa incondizionata. L’8 maggio l’armistizio è ratificato dal maresciallo Keitel per la Germania. E alle ore 15 l’annuncio ufficiale della fine della guerra  viene diffuso contemporaneamente da Truman, Churchill e Stalin. Ma anche a guerra finita, “il sangue dei vinti” come l’ha chiamato Giampaolo Pansa nel suo celebre libro, continuerà a scorrere per qualche anno. Marta Kusch è una di quelle 15 mila vittime del regolamento di conti di cui riferì Ferruccio Parri al Senato nel 1948. Un dato prudenziale, che secondo alcuni andrebbe elevato a 20 mila.
L’albergo dove trascorre le sue ultime ore è chiuso oramai da tempo. Ma a Croce d’Aune, chi ha passato la settantina, la ricorda ancora perfettamente. Era una bella donna, alta e bionda che regalava le caramelle ai bambini. Il suo corpo privo di vita viene rinvenuto il 6 maggio 1945 nei pressi del cimitero di S. Osvaldo, a Pedavena. Su un dito della mano erano visibili delle escoriazioni provocate da chi le aveva strappato l’anello. Come dichiarerà cinque anni dopo al processo il sacrestano Benvenuto Siragna, che trasportò la salma nella cella mortuaria di Pedavena. La vittima si chiamava Marta Kusch (in Rower), una cittadina americana di origini tedesche, da tutti conosciuta come “la contessa”, per la sua relazione sentimentale con il conte Borgoncelli, anche lui ucciso dai partigiani nell’autunno del ’44. L’uomo era titolare della Aices di Pedavena, un’impresa edile che lavorava per la Todt. L’assassinio della Kusch, sarebbe rimasto sepolto nell’oblio, se qualche anno dopo la fine della guerra, i parenti della donna non si fossero rivolti al Tribunale di Belluno per l’accertamento delle responsabilità. Le indagini di carabinieri e polizia portarono subito alla denuncia di cinque partigiani: Rizzieri Raveane “Nicolotto” da Celarda di Feltre, comandante della Brigata Garibaldi; Bruno Tranquillo Polloni “Tempesta”, da Pedavena, comandante la compagnia “Toti”; Celeste Garavana “Gippo” da Torino; Paolo Mosca “Stellazza” da Agordo; Giuseppe De Bortoli “Valik”, comandante del Btg. Zancanaro. I cinque imputati dovevano rispondere di sequestro aggravato di persona; Raveane, Polloni, Garavana e De Bortoli di rapina aggravata e di correità in omicidio aggravato; Polloni e Garavana di una seconda rapina; Mosca, solo di sequestro di persona. Il 20 novembre del ‘50 inizia il processo nell’aula della Corte d’Assise di Belluno. Sin dalle prime battute vi sono pareri discordanti sul conto della vittima: ”si diceva che l’uccisione della contessa era da considerarsi un grande delitto” disse Vittorio Stefani, padre di Natale comandante partigiano morto. Aristide Zenoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Feltre disse che una staffetta partigiana inviata a prendere contatti con la ditta Aices diretta dalla Kusch, venne catturata e trasferita in un campo di concentramento. “Mai sentito accusare la Kusch di spionaggio prima del processo” disse invece il parroco di Pedavena don Dante Cassol. Pur ammettendo che alla Kursch voce di popolo addebitava i rastrellamenti eseguiti dai tedeschi dopo l’uccisione del conte Borgoncelli. Ma Giovanni Rento, commissario partigiano della compagnia “Dante” seppe da operai della Todt che la contessa aveva aiutato dei partigiani. Nella ricostruzione processuale dei fatti che ne segue, viene accertato che il 2 maggio 1945 il Polloni ed altri partigiani, si recano in auto nell’albergo di Croce D’Aune, dove alloggiava la Kusch e l’arrestano rinchiudendola in camera di sicurezza a Pedavena. Maria Longo e Clara Rossi, incarcerate con la Kusch, dichiarano che la “contessa” disse loro che avrebbe rinunciato a tutto pur di avere salva la vita. Dopo l’arresto, Polloni, Silvio Longhi “Rico” e Celeste Garavana “Gippo”, ritornano nella camera della Kusch a Croce d’Aune dove s’impossessano di una valigia contenente 4 milioni in banconote. La valigia viene portata al Comando di battaglione e consegnata a Dalla Sega “Robespierre”. Una rapina che si aggiungeva a quella già subita dalla Kursch nel dicembre del ’44, quando ancora abitava a Servo di Sovramonte. Ma il peggio doveva ancora avvenire. Il 4 maggio 1945 verso le 2 del pomeriggio Bruno Polloni “Tempesta” preleva la prigioniera su ordine di Rizzieri Raveane “Nicolotto”. Dopodiché, assieme a Celeste Garavana “Gippo” e al russo Bornikoff, si dirige verso il cimitero dove la Kursch viene uccisa con due raffiche di mitra. A sparare sono il russo Bornikoff e Celeste Garavana “Gippo”. Nel corso del processo, riguardo al “sequestro dei beni” dell’uccisa, l’imputato Rizzieri Raveane afferma che la pratica era normalmente in uso presso i partigiani. Ed anche il Polloni conferma che nell’ordine di arresto era implicito anche quello di prelevare tutta la proprietà della Kusch. Oltre ai 4 milioni di lire in banconote, infatti, sparisce anche l’anello, la pelliccia di visone ed altri oggetti pregiati. Dei 4 milioni però, solo 1 milione e 600 arriva al Comando di Battaglione, come precisa il comandante della Brigata Garibaldi. Circostanza confermata anche da Silvio Zenoni, membro del C.L.N. di Feltre, che riceve in consegna la valigia contenente la somma di 1milione e 600 mila lire che poi venne divisa fra i garibaldini, il Comune e i cittadini bisognosi. Martedì 21 novembre 1950 si conclude in Corte d’Assise a Belluno il processo a carico dei quattro ex partigiani Rizzieri Raveane, Bruno Polloni, Celeste Garavana e Giuseppe De Bortoli, imputati di omicidio aggravato e rapina.  La sentenza applica nei loro confronti l’amnistia e derubrica il reato di rapina in peculato, assolvendoli per insufficienza di prove. Il De Bortoli viene assolto con formula piena dal reato di rapina. Mercoledì 22 novembre 1950 tutti gli imputati sono rimessi in libertà.
(Roberto De Nart)
PS –  ringrazio sin d'ora tutti coloro che, a conoscenza di particolari o documenti relativi alla vita di Marta Kusch e del conte Borgoncelli, desiderino contattarmi al n. telefonico 328 0752321 e-mail rodenart@tin.it

Le straordinarie avventure del conte bellunese Carlo Rudio. Cadetto austriaco, bombarolo, evaso ed ufficiale del 7mo Reggimento cavalleria del generale Custer

Cento anni fa, il I novembre 1910 moriva a San Francisco il conte bellunese Carlo Rudio le cui avventure sono raccontate da Cesare Marino nel libro di recente ristampa dal titolo “Dal Piave a Little Bighorn”. Settantaquattro anni prima di Angelo Sbardellotto, il giovane anarchico di Villa di Villa (Mel) fucilato nel 1932 per aver progettato di uccidere Mussolini, Carlo Rudio fece parlare più volte di sé. Il suo nome, infatti, era tra quelli che presero parte al fallito attentato contro l’imperatore Napoleone III nel 1858 a Parigi. Ma a differenza dell’anarchico di Mel, Rudio riuscirà sempre a cavarsela, in un crescendo straordinario di eventi degni del migliore film d’azione. Evita la ghigliottina, sopravvive ad una letale epidemia di febbre gialla quand’era rinchiuso nelle carceri francesi della Cajenna, da dove riesce ad evadere. Poi si arruola nell’esercito americano e riuscirà a salvare la pelle nella celebre battaglia di Little Bighorn, dove i Sioux ed i Cheyenne massacrarono il 7mo Reggimento cavalleggeri del generale Custer. Nel novembre del 1910 muore, serenamente nel suo letto a San Francisco, all’età di 78 anni.

Di lui, si è occupata varie volte la stampa internazionale dell’epoca. Il quotidiano italo americano “L’eco d’Italia”, ad esempio, in un editoriale del 1881 scrive sarcasticamente: “se il conte Carlo Camillo di Rudio fosse stato uno yankee d’origine anglosassone anziché italiana, avrebbe certamente ottenuto i galloni da generale”! Il nobile bellunese, infatti, arruolatosi nel leggendario Settimo Cavalleggeri del generale Custer, era già in pensione da 8 anni a Los Angeles con l’amata moglie Eliza Booth, quando riceve la promozione al grado di maggiore. Carlo Rudio, secondogenito di una famiglia nobile bellunese, nasce il 26 agosto 1832 a Belluno e trascorre l’infanzia ed i mesi estivi della giovinezza nella villa di famiglia a Sala di Cusighe, nell'immediata periferia di Belluno. E’ qui che ascolta i primi sermoni velati di patriottismo di don Sebastiano Barozzi, prete del paese. A 13 anni Rudio è ammesso all’Imperial-regio collegio militare di San Luca a Milano, con il fratello maggiore Achille. Il giovane Carlo è testimone più volte di episodi di violenza dei soldati austriaci sulla popolazione civile. Durante le Cinque giornate di Milano (18- 22 marzo 1848) vede uccidere a sangue freddo una giovane donna incinta dai soldati croati del feldmaresciallo Radetzky. La stessa cosa succede a Castelnuovo, dove una giovane ragazza viene uccisa senza ragione da un soldato austro-ungarico. Rudio questa volta reagisce ed ammazza il soldato. Si schiera, insomma, con l’Italia oppressa. Rifiuta di raffermarsi nell’esercito di Radetzky e passa nella Legione dei cacciatori delle Alpi, comandata da Pier Fortunato Calvi. Nell’aprile del 1849 combatte insieme a Garibaldi nella vittoriosa battaglia di Roma, contro il generale Oudinot. Poi a Velletri è inquadrato nella Compagnia dei ragazzi che sorprende sul fianco i Borbonici costringendoli alla ritirata. Seguono gli anni delle cospirazioni, con gli arresti, le fughe e l’esilio dell’inafferrabile Moretto, come oramai era stato soprannominato. A Parigi, nel corso del processo a carico di Felice Orsini ed Antonio Gomez, protagonisti del fallito attentato a Napoleone III del 14 gennaio 1858, viene riconosciuto come uno dei complici e rischia la ghigliottina. Pena commutata in carcere a vita, grazie all’abilità del suo avvocato. Rinchiuso nelle carceri della Cajenna, la colonia penale francese in Sudamerica, sopravvive miracolosamente ad una terribile epidemia di febbre gialla, che uccide il 90% degli uomini (si salvano solo in 60 su 600, tra condannati e carcerieri). Non basta. Evade dalla Cajenna in modo rocambolesco e raggiunge Londra, dove incontra Giuseppe Mazzini che, desideroso di levarselo dai piedi, lo consiglia di lasciare l’Europa. Così, nel gennaio del 1864 Rudio riparte per New York, con in tasca un attestato di stima firmato da Mazzini. Il 25 agosto del 1864, alla vigilia del suo 32mo compleanno, indossa la divisa di soldato semplice yankee dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Rimarrà in servizio per i successivi 32 anni, fino all’agosto del 1896, quando si congederà con il grado di capitano. Grazie alla famosa lettera d’accredito di Mazzini, Rudio ottiene la nomina a sottotenente del II Reggimento volontari di colore, che accetta di buon grado, essendo di dichiarata fede antischiavista. Nel luglio del 1869 viene assegnato al VII Reggimento Cavalleria di cui era vice comandante il 28enne tenente colonnello George Armstrong Custer. Che però si fregiava dell’appellativo di generale, grado onorifico che si era conquistato sul campo durante la Guerra di secessione. Tra i due non c’è alcuna simpatia. Il conte Rudio è un ufficiale amato dai suoi uomini e che non passa certamente inosservato nel 7mo Reggimento cavalleggeri. Dichiaratamente ateo ed anticlericale, è favorevole all’emancipazione dei neri. Al punto che nel 1875 rischia di provocare un incidente diplomatico con la colonia francese: fa arrestare il vecchio generale De Clouet, colpevole di non aver permesso ai suoi servitori neri di votare. Rudio incanta ufficiali e soldati con i suoi racconti rocamboleschi di fughe ed attentati. Inoltre è incurante dei rilievi mossi da Custer che non sopporta che egli continui a portare una sciabola da cavalleria fuori ordinanza con l’elsa dorata, donatagli dai suoi soldati. Era davvero troppo per il vanitoso generale dai capelli biondi, con tanto d’ineccepibile pedigree di West Point. Uno che si portava sempre al seguito i giornalisti del New York Herald, del Bismark Tribune e degli altri quotidiani democratici dell’Est, per non perdere occasione di apparire. Ma per le inspiegabili congiunture del destino di cui è piena la storia,  sarà proprio questa insanabile idiosincrasia tra i due che salverà per l’ennesima volta la vita a Rudio nel corso della famosa battaglia di Little Bighorn. Infatti, al comando dello squadrone E, che viene sterminato dagli indiani Sioux e Cheyenne, quella domenica del 25 giugno 1876, avrebbe dovuto esserci il tenente Rudio. Ma Custer, per impedirgli di assumere il comando di quel reparto, che aveva il posto di capitano vacante ed avrebbe così favorito la carriera di Rudio, lo fa trasferire allo squadrone A, salvandogli involontariamente la vita. Carlo Rudio, divenuto nel frattempo Charles de Rudio all’anagrafe Usa,  muore a San Francisco il I novembre 1910. Prima di spirare, però, a distanza di 50 anni dall’attentato a Napoleone III, si leva l’ultimo sassolino dalla scarpa facendo il nome di Francesco Crispi, indicato come il responsabile del lancio della terza bomba contro l’imperatore. Una rivelazione che, ovviamente, lo porta per l’ultima volta su tutte le prime pagine dei quotidiani.

lunedì 6 dicembre 2010

Lo storico incontro tra Hitler e Mussolini a Villa Gaggia (Belluno). E il retroscena dell'attentato che non ci fu

Se fosse riuscito, la II Guerra mondiale sarebbe finita con due anni di anticipo ed alcuni milioni di morti in meno. Nel luglio del ’43 c’era un piano per eliminare Hitler e Mussolini. L’ora X sarebbe dovuta scoccare in occasione dell’incontro svoltosi a Villa Gaggia di San Fermo. Ma il timore dell’avanzata comunista da parte del Vaticano e di chi a Roma lavorava già per il dopo Fascismo, fermò il blitz. La regia dell’attentato, o almeno gli indizi raccolti, convergono nello Stato maggiore (Badoglio), che voleva liberarsi di Mussolini. Ma, come vedremo, il piano viene esteso ad entrambi i dittatori, due piccioni con una fava. Il racconto e la testimonianza di un protagonista, Armando Bettiol, all’epoca studente universitario antifascista che ebbe un ruolo preciso nella vicenda.

L'incontro di Feltre
Il 19 luglio del 1943 avviene quello che passerà alla storia come “L’incontro di Feltre” tra Hitler e Mussolini. Benché Villa Gaggia, dimora estiva del senatore del regno Achille Gaggia (che con Volpi e Cini sarà interprete del decollo industriale nel dopoguerra della Sade, poi divenuta Enel), si trovi in realtà a San Fermo, o più precisamente a Socchieva, una località isolata fuori Belluno ad una ventina di chilometri da Feltre. L’errore, poi omologato dalla storiografia ufficiale,  è probabilmente dovuto ad un banale refuso dello stesso Mussolini, che nelle sue memorie lo ricorda appunto come “incontro di Feltre”. Alle ore 11, nel salone principale della villa, Hitler inzia a parlare dinanzi a Mussolini, il sottosegretario Bastianini, gli ambasciatori Von Mackenzen e Alfieri, il capo di stato maggiore generale Ambrosio, il feldmaresciallo Keitel, il generale Rintelen, il generale Warlimont, il colonnello Montezemolo, Schmidt, ed alcuni altri del seguito. Un freddo monologo con un lungo inventario di cose che l’Italia non aveva fatto, o aveva fatto male. Solo alle 11.30 un apatico Duce interviene per tradurre in tedesco il messaggio del bombardamento su Roma. L’ “Operazione Crosspoint” o “Notte di San Lorenzo”, quando 362 bombardieri pesanti B17 e B24 e 300 bombardieri medi 146 B26 e 154 B25, scortati da 268 caccia Lighting colpiscono la capitale alle 11 del mattino ed in sei ondate successive provocano 3000 vittime. Alle 3 del pomeriggio, con un nulla di fatto, si concludono i “Colloqui di Feltre”, e la colonna di auto riparte con un Mussolini insoddisfatto, nascosto dietro gli occhiali scuri sulla Mercedes scoperta alla sinistra di Hitler. La mattina seguente, il 20 luglio, Mussolini dalla capitale comunica al generale Ambrosio la sua intenzione di scrivere a Hitler che l’Italia non era più nelle condizioni di proseguire la guerra. Ma era troppo tardi. Il generale gli fa notare che questa decisione andava presa a Villa Gaggia. Dopo qualche giorno, infatti, il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio farà cadere Mussolini. Seguiranno i 90 giorni di Badoglio e l’armistizio dell’8 settembre.

Il progetto dell'attentato e il contrordine
Un centinaio di Alpini, reduci di Russia, erano pronti ad eliminare Hitler e Mussolini con un blitz kamikaze. Al momento della presentazione delle armi (rigorosamente scariche), gli Alpini del picchetto d’onore avrebbero lanciato le bombe a mano contro i due dittatori, cercando poi di sfuggire alla reazione delle SS. Di motivi per farlo, questi soldati ne avevano da vendere, come dichiarò una ventina d’anni fa Nino Piazza, sergente degli Alpini (atti del “Convegno Alpenvorland 1943-45” - Palazzo Crepadona 21-23 aprile 1983). “Eravamo partiti in 1800 per la Russia e tornammo in 117 - dichiarò Piazza -  ai quali si devono aggiungere un centinaio di feriti rimpatriati prima della ritirata. Eravamo alloggiati in una caserma di Feltre, dove l’insofferenza per la disciplina era totale. Entravamo ed uscivamo quando volevamo. Ed anche se non c’era ancora alcuna forma di organizzazione antifascista, le esplosioni di odio incontrollato non si contavano. Si sentiva continuamente gridare Viva Lenin, Viva Stalin, Morte al Duce. Ma non ci potevano fare niente, perché noi eravamo quelli che la retorica ufficiale definiva gli Eroi della Russia. Un ambiente, insomma, dov’era facile trovare uomini disposti a tutto pur di eliminare colui che li aveva mandati al macello in Russia. Dalla fine del ’42, inoltre, esistevano a Belluno due organizzazioni antifasciste. Il Comitato d’azione antifascista, con Ernesto Tattoni e Armando Bettiol, che faceva capo al Partito d’Azione PdA. E la rete del Partito Comunista PC con Checco e Maria Da Gioz, Giorgio Bettiol ed Eliseo Dal Pont. “Qualche settimana prima dell’Incontro di Villa Gaggia - spiega il dottor Armando Bettiol -  fummo contattati dal maggiore Del Vecchio. L’ufficiale, originario di Pesaro, comandava gli Alpini reduci di Russia temporaneamente dislocati a Longarone. A noi venne assegnato il compito di portare la cassa di bombe necessarie per l’attentato, all’interno della villa. Tant’è che andammo a perlustrare la zona e individuammo nel lato sud, dove passa la ferrovia, il varco migliore per l’operazione. Insieme a Tattoni, portai la questione a Padova, al Comitato regionale veneto del PdA, presenti Meneghetti del Partito Socialista, Concetto Marchesi del Partito Comunista, Norberto Bobbio PdA e il conte Papafava, del Partito Liberale. Il Comitato ci incaricò di informare Ugo La Malfa esponente del PdA, con il quale ci fu poi un incontro a Milano e successivamente un altro contatto ad Asti, nella villa del maresciallo Badoglio, con una persona delegata da quest’ultimo. Ricordo – prosegue Bettiol – che per verificare l’attendibilità del maggiore Del Vecchio, partecipammo ad un incontro in casa dell’onorevole Macelli a Pesaro, città di provenienza di Del  Vecchio” C’era, insomma, la mano dello Stato maggiore dell’Esercito a monte, che contattò l’antifascismo locale bellunese e non viceversa come sostenne il sergente Nino Piazza. “Era impensabile – prosegue Bettiol all’epoca 19enne universitario alla Facoltà di Giurisprudenza di Padova con Tattoni  – che un gruppo di giovani potessero aver progettato da soli un attentato di questa portata.”  All’ultimo momento però c’è un cambio di programma, il picchetto d’onore degli Alpini viene cancellato. E dunque, il blitz sarebbe stato più difficile perché gli Alpini avrebbero dovuto penetrare dal bosco superando il fuoco delle mitragliatrici delle SS piazzate nei fossati che erano stati scavati intorno alla villa. Per questa ragione, ma non solo, l’attentato venne sospeso per ordine delle direzioni nazionali del PCI e del PdA, rappresentati regionalmente da Concetto Marchesi e Ugo La Malfa. A questo punto possiamo fare due ipotesi.  Mancavano pochi giorni alla destituzione di Mussolini, evidentemente qualcosa c’era già nell’aria ed i tedeschi non si fidavano più di nessuno: Hitler decide di attorniarsi delle sue fedelissime SS e dispone che venga soppresso il picchetto d’onore italiano. Del resto, anche i mobili della sala nella quale si svolse la riunione vennero sostituiti con altri appositamente controllati dai tedeschi. Anche Eugene Dollmann, colonnello delle SS ed interprete dei principali colloqui di Hitler dal ’33 al ’45, nel suo libro “Roma nazista” avvalora questa sindrome della congiura che oramai serpeggiava tra i tedeschi: “Raggiunta la villa - scrive Dollmann, che però non era presente all’incontro di Villa Gaggia - il comando della piccola scorta al Führer, non ebbe più alcun dubbio: si trattava di un’imboscata. Tolsero la sicura dalle pistole, armarono i mitra e si disposero intorno alla villa, pronti a difendere la pelle. Ebbene - commenta Dollmann - la scelta di quella località da parte del cerimoniale di Palazzo Chigi, potrebbe essere perdonata qualora risultasse da documenti segreti che intorno a quella remota residenza estiva, nei monti, nelle foreste, lungo i fiumi ed i ruscelli, un audace cervello avesse nascosto truppe fidate, pronte a catturare entrambi i dittatori, facendo così cessare di colpo la guerra su tutti i fronti. Diversamente - prosegue Dollmann - non avrebbero avuto giustificazione tutti gli strapazzi patiti, dal volo fino a Treviso, poi il lungo viaggio in ferrovia, con molto fumo fino a Feltre e le successive ore di auto. Quanto non si sarebbe risparmiato all’Europa ed al mondo, se re Vittorio Emanuele, Acquarone (il duca Pietro Acquarone, ministro della real Casa ndr), e gli attori secondari, da Ambrosio all’ultimo tenente dei carabinieri, avessero anticipato di qualche giorno l’andata in scena del loro Sogno d’una notte d’estate” - osserva Dollmann - ipotizzando un blitz nel magnifico bosco incantato, tra i caprioli che si accostavano alle tavole imbandite, elemosinando leccornie e le poche guardie appostate tra i cespugli, oramai certe dell’attacco. C’è una seconda ipotesi. L’improvviso cambio di programma non è dovuto alla diffidenza di Berlino, ma piuttosto a motivi di opportunità politica maturati a Roma. Il Vaticano teme l’avanzata del Comunismo e dunque preferisce fermare l’attentato ed attendere l’intervento degli anglo-americani, piuttosto che rischiare di lasciare mano libera all’antifascismo rosso nella gestione del dopo Mussolini. ”A farcelo notare fu Ugo La Malfa, precisa Armando Bettiol. Si ipotizza che il Vaticano avesse dato delle indicazioni di attendere l’intervento degli Alleati, anziché azzardare un sovvertimento interno che conteneva troppe incognite”. Le armi per l’attentato erano pronte: c’era una cassa di bombe a mano “ananas” nascosta in via Col di Lana in casa di Armando Bettiol, pronte ad essere trasportate all’interno della recinzione di Villa Gaggia. “Quelle bombe – ricorda Bettiol – dopo il contrordine le nascosi sotto uno strato di malta in cantina e servirono dopo l’8 settembre ai partigiani nella zona di Longarone e Zoldo”.  Non vi sono dubbi, insomma sul progetto dell’attentato, che ha tutta l’aria di essere stato organizzato dai vertici militari (Badoglio). Ciò che non quadra sono i tempi. Il maggiore Del Vecchio, comandante dei reduci, contatta Tattoni e Bettiol per la cassa di bombe alcune settimane prima del 19 luglio. Come faceva ed essere informato dell’incontro con tanto anticipo se, come dice Fredrick Deakin nella sua “Storia della Repubblica di Salò”, l’incontro fu deciso all’improvviso da Hitler solo il giorno prima? L’unica spiegazione che azzardiamo è quella che il complotto fosse nato, in origine, solo per togliere di mezzo Mussolini.  Villa Gaggia, infatti, era già stata identificata come un “obiettivo strategico” in quanto esisteva un progetto, poi abbandonato, di trasformarla in residenza del Duce, in alternativa a Salò. La circostanza, sarebbe avvalorata da alcuni interventi, che l’impresa Monti di Auronzo fu chiamata a realizzare in previsione della costruzione di un rifugio antiaereo. Non c’è dubbio che se Hitler e Mussolini fossero stati spazzati via in un sol colpo dagli Alpini, la guerra sarebbe cessata molto prima. Ma, evidentemente, più delle difficoltà operative, cui abbiamo accennato e che comunque appaiono secondarie per un manipolo d’uomini fortemente determinati e pronti al sacrificio, a pesare furono le valutazioni politiche di chi nel ’43 lavorava già per il dopo Fascismo.