Belluno

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Piave, Ponte della Vittoria

martedì 7 dicembre 2010

“La beffa di Baldenich I”: Il 16 giugno 1944 dodici partigiani neutralizzano le guardie e liberano 70 prigionieri



Mariano Mandolesi "Carlo"
 L’Operazione Baldenich, nota anche come Beffa di Baldenich, è il blitz portato a termine con successo da 12 partigiani nel giugno del ’44. Travestiti da soldati tedeschi entrano nel carcere e liberano 70 prigionieri politici senza sparare un colpo. I dettagli dell’operazione sono stati raccontati da uno dei protagonisti, “Carlo” il Comandante della Piazza di Belluno durante la guerra di liberazione. Ovvero il partigiano Mariano Mandolesi nato a Gaeta il 9 settembre del 1920 ed insignito della cittadinanza onoraria dal Comune di Belluno con cerimonia del 12 aprile 1976.
Il 28 Aprile 1945 Mandolesi ripeterà con successo il blitz, beffando per la seconda volta i tedeschi.


Carcere di Baldenich (Belluno)

La mattina del 16 giugno 1944 alle ore 7 e mezza del mattino, otto soldati in uniforme tedesca si presentano all’ingresso delle carceri di Baldenich con quattro prigionieri al seguito. In realtà i dodici uomini sono tutti partigiani italiani e sovietici della Brigata Pisacane, Divisione Nino Nannetti, travestiti per penetrare nelle carceri e liberare i prigionieri politici. A mettere a punto il piano la sera prima è il comandante “Carlo”, Mariano Mandolesi, insieme a De Luca. “A Baldenich ci sono 16 carabinieri - spiega De Luca a Mandolesi - 14 della gendarmeria e 2 di guardia sopra i camminamenti. Nei bracci ci sono 10 secondini, spesso aiutati da “comuni”. Prima di giungere al piazzale del carcere troveremo Lino che ci informerà sui movimenti di stamane. E all’uscita, liberati tutti i prigionieri politici, troveremo Nasi ad aspettarci con i camions”. De Luca chiama poi gli otto partigiani russi, Miscia, Kuznetsov, Tim, Mik, Vasilij, Aljoska, Timofej e Orlov dicendo loro di indossare le uniformi tedesche, per l’ultimo controllo. Miscia, che aveva i gradi da maresciallo, oltre al tascapane portava la pistola d’ordinanza Walther P38 calibro 9 parabellum e la maschinenpistole, un robusto mitra in calibro 9 parabellum che sparava solo a raffica. Sembrava tutto in regola, berretti, nastrini, mostrine, scarpe. Solo Orlov aveva con sé un fucile mitragliatore russo DP 1928 calibro 7.62 caratterizzato dal caricatore a padella contenente 47 colpi . “Moj Degtjarëv” disse (dal nome del tecnico che aveva realizzato l’arma che è rimasta in dotazione negli eserciti dei paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica  fino ai giorni nostri) . “Non puoi portarlo, sarebbe un pericolo per tutti” gli disse De Luca. “Lui pericoloso per tedeschi non per noi” ribatté Orlov. Intervenne allora Mandolesi assicurando che la faccenda sarebbe stata sistemata prima della partenza. Alle sei e mezza del mattino dopo De Luca salì su una balla di paglia prendendo la parola. “Compagni, è venuto il momento di spiegarvi in che cosa consiste l’operazione. Dopo che vi avrò parlato, nessuno potrà uscire dalla caserma, né potrà allontanarsi durante il trasferimento a Belluno. Una precauzione a cui da molto tempo non si può più rinunciare. Il vostro compito è quello di liberare i prigionieri politici che si trovano nel carcere. Non solo Milo, ma tutti! Abbiamo esaminato attentamente tutte le possibilità ed i mezzi necessari al successo dell’azione. E sono state scartate tutte le ipotesi che prevedono l’uso della forza.  Baldenich, infatti, è un carcere che può essere difeso anche da pochi uomini; senza contare che ai primi spari comincerebbero ad arrivare i rinforzi nemici dalle caserme della città. I nostri 12 uomini dovranno agire con astuzia, senza colpo ferire. Si tratta indubbiamente di un’operazione estremamente pericolosa ma è l’unico sistema che possiamo seguire. Conosciamo le dislocazioni dei vari locali del carcere, sappiamo il numero delle unità di guardia. Le recinzioni sono difese da circuiti elettrici ma non siamo riusciti a sapere come disattivarli. Diciotto compagni resteranno fuori delle mura, per coprire le spalle alla pattuglia che penetrerà nel carcere. Nella zona non si dovrà avere il minimo sospetto della presenza di partigiani. Se tutto andrà bene potrete allontanarvi sui camions che Nasi farà dislocare nei punti stabiliti. Vi prego soltanto di ricordare che questa azione non ci deve costare un solo uomo, né una sola cartuccia. Ma deve riportare alla libertà e alla vita 70 compagni”. Erano le 7 di mattina. Mandolesi prima di avviarsi si raccomanda di controllare le armi, che nessuno abbia il colpo in canna. “Perché prima di sparare dovete essere assolutamente certi che quella è l’ultima possibilità di salvezza”. Un attimo prima di lasciare la caserma Orlov trattiene per la manica Mandolesi per dirgli “Comandier io portare Degtjarëv, arma di voi prigionieri”. “D’accordo – rispose Mandolesi – diremo che quell’arma era nostra”. Nel tragitto dalla caserma a Baldenich fila tutto liscio. C’era il rischio che i partigiani travestiti da tedeschi con i prigionieri al seguito incrociassero una pattuglia di autetici tedeschi e venissero smascherati. Anche perché sulla testa di Mandolesi c’era una taglia di alcuni milioni. Il primo punto del programma però va a vuoto. Infatti Lino Piazza, che doveva trovarsi insieme alla fidanzata per riferire eventuali novità delle ultime ore nel carcere, turni di guardia ecc. non c’è. Si decide comunque di proseguire. Miscia, in divisa da maresciallo bussa con decisione. Il carabiniere dallo spioncino, visto il maresciallo cede il posto ad un sottufficiale che apre il portone e li fa entrare. Nel cortile rimangono tre partigiani con 16 carabinieri. Miscia entra nell’ufficio matricole seguito da Mandolesi, Marat, Mink, Aljoska e Orlov. Appena dentro della porta si ferma Nicolotto, vicino al telefono. Hermes e Kuznetsov chiudevano il gruppo. L’impiegato chiede a Miscia i documenti di carcerazione. “Io niet capire” risponde Miscia in un tedesco che tradisce la sua nazionalità d’origine. “Camerata, io per imprigionare questi uomini ho bisogno di carte, documenti. Dove li hai?” E Miscia “Niet capire”. Interviene allora il maresciallo delle guardie “Papir, papir” E Miscia “Soldati grande reich afere fucili prigionieri” indicando l’arma di Orlov. Ma non c’è verso, Miscia finge di non capire ed insiste in quel “niet” tutto russo che per fortuna sfugge ai carcerieri. Doveva guadagnare tempo in attesa che che arrivasse un secondino con le chiavi. La situazione si fa tesa, con Miscia che alterna momenti di calma a scatti d’ira, interpretati come manifestazioni d’autorità. Ma non c’è soluzione, la burocrazia pretende le carte con i nomi per rinchiudere quei prigionieri. Carte che evidentemente i partigiani non potevano avere. Esasperata, una delle guardie chiede: “Possibile che tra voi nessuno parli italiano?” Ma in quel momento entra un secondino col mazzo di chiavi in mano. Kuznetsov lo scaraventa al centro dell’ufficio, Mandolesi intanto punta la pistola verso l’impiegato e il maresciallo dicendo “Tutti parliamo l’italiano”! Nicolotto intanto aveva afferrato il telefono pronto a strappare i cavi. “Non fate scherzi o vi brucio le cervella – dice Mandolesi ai due carcerieri, e chiede loro -  c’è qualche allarme collegato al telefono”? “No, non c’è” gli rispondono. Nicolotto strappa la linea telefonica e scosta le tendine, come segnale convenuto per avvisare i compagni che aspettavano di sotto. Tim fa un cenno a Vasilij e quelli rimasti in cortile puntano i fucili contro una sentinella del camminamento. Timofej spalanca il portone e fa entrare altri 5 partigiani. Tim ordina alle sentinelle di scendere in cortile con le braccia alzate e tenendo il mitra sopra la testa. Mandolesi, Nicolotto e Kuznestov vanno a liberare Milo. Mentre Vasilij e Timofej avevano già disarmato tutti e controllavano che i carabinieri finissero di spogliarsi. Ma questi non si erano resi conto di ciò che stava succedendo e continuavano a dichiarare la loro fedeltà ad Hitler e Mussolini, protestando per l’incomprensibile atteggiamento dei tre camerati tedeschi. Ermes per farli tacere li rinchiuse nella cella di Milo minacciandoli con la pistola col silenziatore. I partigiani, divisi in quattro gruppi, aprivano tutte le celle. “Venivano fuori in mutandine, chi con i calzoni del pigiama, chi con la giubba militare” racconta Mandolesi, che viene abbracciato da Bianchi. Nella quarta cella Banchieri era già vestito, pettinato e con un paio di scarpe bianche estive ai piedi. Banchieri era un uomo che aveva trascorso i 2 terzi della sua vita all’estero, fuggiasco, esule o incarcerato. Era nato in una ricca famiglia di Feltre. Laureatosi in legge si era dedicato ad una intensa attività politica contro il fascismo, dovendo per questo emigrare in Francia. Richiamato in Italia dal partito comunista, fu tra i primi a conoscere il carcere fascista.
Nelle celle lasciate libere dai prigionieri vennero rinchiusi i carabinieri ed i secondini. Il portone principale era chiuso. Milo doveva avere le chiavi, ma nella confusione generale non  si riusciva a trovare. Mandolesi libera i ferri che fermano il portone e con una spallata riesce ad aprirlo. Missione compiuta.

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